Smetto di correre perché non ne ho più voglia - Niki Gresteri
Smetto di correre perché non ne ho più voglia.
Per prima cosa sto invecchiando, corro da
quasi trent’anni e penso che possa bastare a questo punto.
Eh già, nel momento in cui inizi un discorso
con il fatidico “da almeno…”, vuol dire che sei vecchio, triste e pieno di
retorica, ed è quindi chiaro che è finita.
Allora correggo; non sto invecchiando, sono vecchio e stanco, triste e gonfio
di inutile retorica.
Corro da quando non sapevo nemmeno che
esistesse l’ultrarunning, le gare in montagna e tutto quanto.
Insomma, andavo in un bosco, in campagna, su
un monte insignificante e correvo perché mi andava di farlo.
Correvo fino a quando ne avevo voglia e credo
dovrebbe essere ancora così, almeno per me, ma so che non è più la stessa cosa.
Insomma, da ragazzo partivo senza niente, con
le scarpe ‘sbagliate’ e con addosso un paio di braghette comprate al mercato,
anti fashion indubbiamente.
Passavo un mucchio di tempo in giro, senza
mangiare e senza bere, con in testa un cappellino rosa del Giro d’Italia
regalato dalla Gazzetta.
Non sapevo neppure dell’esistenza delle
borracce a mano e allora mi infilavo una borraccia da bici nei pantaloncini e
andavo dove volevo. Poi decisi che per i giri più lunghi potevo utilizzare il
vecchio camel bak da mtb, solo che siccome odio tutt’ora bere dal tubo, levai
la sacca e ci misi dentro una borraccia, che potevo tirare fuori con una mano,
da dietro teoricamente.
Era piuttosto scomodo ed era facile farsi
uscire la spalla ogni volta, nel tentativo di afferrare la borraccia.
Ma quello era il preludio per quando la spalla
mi sarebbe uscita per davvero, volando di sotto da una delle nostre proverbiali
‘terrazze’ liguri.
Gran bel volo e che tempi !
Era il 1994, ed ecco che il vecchio rognoso
torna a parlare del tempo e degli anni che passano.
È proprio finita.
Beh, comunque dei chilometri e dei dislivelli
non me ne fregava già niente, proprio come oggi, ma negli ultimi anni mi sono
evoluto con un orologio gps per appagare un po’ di ego e così posso ripetermi
che ho fatto tanta strada…
Ripercorrendo i giri che prima facevo senza
orologio, mi sono fatto un’idea delle uscite che improvvisavo quando avevo 16
anni.
A volte erano 30/40 km, quasi sempre senza
cibo e bevendo dove capitava, se capitava.
Questo tipo di formazione artigianale molto
approssimativa, da puro dilettante, non mi ha reso “migliore”, ma oggi, mi fa
sorridere per tutte quelle menate sui ristori e quant’altro, come se correre
‘bene’ dipendesse dai servizi offerti da un organizzazione.
Se voglio correre, corro, e non me ne frega
niente del rapporto euro/km/servizio offerto. Ho fatto gare costose e altre
meno, ma il punto è che se decido di fare una gara, è perché per me ha una
storia, uno stile e un’estetica che mi affascina.
Mi metto il pettorale e onoro la gara.
Le polemiche sui pacchi gara sfigati e sui
ristori miseri mi fanno ridere, anche perché in fondo, è sufficiente correre
senza fare gare per non avere questi tipi di “problemi”.
Oggi la maggior parte delle gare mi hanno
stufato. Mi hanno stufato gli “eroi” e gli hashtag, mi ha stufato pensare che
fare tanti km in allenamento o essere finisher in qualche competizione, possa
aggiungere qualcosa, che possa dire qualcosa di te.
Vabbè, in realtà l’ho sempre pensata così, ma
nascondendomi dietro la mia vile pigrizia, non ho mai detto di allenarmi,
perché in fondo poche volte ci ho provato.
Correvo e andavo ovunque, una volta anche per
cento miglia, accecato dall’ideale della corsa come possibilità di arrivare
dall’altra parte di me stesso, dall’altra parte della luce, ancor prima che
dall’altra parte di una montagna.
Ma non era vero niente, oggi sono sempre lo
stesso, anzi sono peggiorato, in qualunque versante della montagna mi trovi in
questo momento.
Presto toglierò le scarpe da corsa e mi
rimetterò un paio di scarponi pesantissimi e una bella camicia a quadri, stile
comitiva Cai (lo dico con affetto).
Già, amato Cai ! È arrivato anche il momento
di coronare la nostra storia d’amore con una doverosa tessera “socio” che non
ho mai fatto.
Magari farò giro corti, ma starò via un giorno
intero, anzi, starò via il tempo che ci vuole.
Forse adotterò un cane randagio e anche lui
verrà con me, come ho sempre desiderato fare. Mi porterò dietro uno zaino da
settanta litri e lascerò quello da sette nell’armadio.
E finalmente ci butterò dentro un bel thermos
di tè caldo, visto che in quel maledetto e striminzito zainetto da corsa non ci
stava mai niente.
Tendenzialmente ho sempre più bisogno della
stufa accesa e del tè caldo, accompagnato da pile di libri e dai miei gatti;
praticamente un anti atleta, se mai lo sono stato.
Ricordo una vecchia intervista di Alp al visionario
Heinz Mariacher, che dopo anni di arrampicate irripetibili, disse, più o meno,
“un giorno arriva il momento, in cui l’ultima grande ribellione, è quella di
starsene sul divano e di farsi crescere una bella pancia”.
Ci sto lavorando.
Se penso a tutti questi anni di corse
solitarie, ma anche di gare, quello che mi resta addosso è l’intuizione della
corsa, come promessa di libertà, molto effimera in realtà, ma spesso efficace.
Mi piaceva stare fuori il più possibile e
capire dove andava a finire il profumo della sera prima della notte.
Mi piaceva perdermi nella nebbia assoluta, lo
spettro regale che poteva cambiare tutte le cose ed elevava l’incertezza ad
unica certezza.
Mi piaceva farmi sfondare il cranio dal sole e
scavare gli occhi dalla fatica più desolante.
Quello che contava non era la distanza ma la
lontananza, immaginare possibilità, intuire una storia.
Quello che mi serviva non era arrivare, ma
essere esposto.
Correvo perché era l’unica cosa che mi veniva
spontanea.
Ma adesso, nella tua testa, non puoi prenderti
in giro, solo tu sai chi sei e sai quando le cose cambiano.
Per questo motivo mi fermo, perché non posso
barare con me stesso.
Smetto di correre.
Ma non adesso.
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