Franco Faggiani - La montagna la devi saper raccontare

 


Ci ha abituato ad una visione poetica e delicata del vivere staccato dalle città. Franco Faggiani la vive a tutto tondo, ed in punta di scarpe da trail ce ne rende partecipe.


Franco fai un lavoro affascinate, che ti ha anche permesso di vivere il mondo della montagna in maniera diretta. Ne hai scritto e continuerai a scrivere, dai reportage ai romanzi passando per le guide. Grande soddisfazione vero?

 

sì, con grande soddisfazione - della montagna e dell’ambiente naturale più in generale con la seria intenzione di arrivare ad avere una maggior confidenza con lei, per esserne maggiormente accolto. “La montagna va affrontata con rispetto”, tutti lo dicono e pochi lo fanno. Ma per poterla rispettare come si deve bisogna conoscerla; perciò studiarla, osservarla, attraversarla, e infine scriverne, è un buon modo per fare questa conoscenza. Ricordando sempre che la montagna non sarà mai madre, resterà matrigna. Come, del resto, diceva Leopardi sulla natura. Questo per dire che manterrà con noi sempre un certo distacco, che esige rispetto.


Il primo libro che ho letto è correre è un po’ come volare, una bella biografia su Marco Olmo. E' ancora affascinante scoprire e narrare di questi talenti un po’ schivi?

 

La scoperta dei personaggi defilati, che pochi conoscono ma che varrebbe la pena di conoscere in tanti, è un po’ una mia specialità, praticata fin dai miei esordi come giornalista e poi come narratore. Anche in questo periodo autunnale sono impegnato con la scrittura di un libro composto da ritratti, disegnati non con la matita ma con le parole, di persone – non personaggi, persone – che hanno a che fare con la montagna; ci vivono, ci lavorano e, per questo, la salvano dal degrado. Eroi non di grandi imprese sportive ma della defilata quotidianità.


Ma soprattutto è ancora affascinante alzarsi andare a correre nella natura e poi sedersi in silenzio davanti al pc? Ho questa idea di scrittore poetica ...

 

Sotto questo punto di vista sono un privilegiato, visto che lo posso, o meglio, lo potrei, fare. Un privilegio dovuto a delle decisioni remote e precise; ho scelto, per esempio, di vivere la professione giornalistica da free lance, da battitore libero, con tutte le grosse difficoltà del caso. Il successo, chiamiamolo così esagerando un po’, è poi derivato dalla costanza applicata in questo lavoro e dall’organizzazione (documentazione, contatti, viaggi…) che sono riuscito creare intorno al lavoro. Ormai, per evidenti questioni anagrafiche (sono coetaneo di Marco Olmo, siamo nati con soli quattro giorni di differenza, ma lui è un caso unico al mondo), non corro quasi più, ma cammino molto: Dunque la montagna non più in verticale ma in orizzontale: lunghe, lente e spesso solitarie traversate che mi permettono di osservare, pensare, valutare e farmi venire idee. E riconciliarmi con me stesso e il mondo. Quindi, quando mi siedo davanti al computer mi sembra sempre di avere qualcosa da raccontare.

Nella manutenzione dei sensi e nell'arrivo di una strana primavera c’è una versione poetica dell'isolamento e un rapporto quasi sussurrato con la diversità. Come è nato questo rapporto?

 

Grazie per ‘la versione poetica dell’isolamento’, mi piace questa definizione. Perché credo che l’isolamento abbia davvero una componente poetica, quando deriva da una scelta precisa. Non lo è, naturalmente, quando l’isolamento è dovuto a una costrizione. Tutti i protagonisti dei miei romanzi vivono una condizione di isolamento per scelta, ed è quella a cui io ambisco. Sotto questo aspetto sono un po’ invidioso nei loro confronti. Come dice il mio amico Franz Rossi, cstiamo provando a “orsettizzarci”: stare un po’ letargo d’inverno, appunto come gli orsi, fare una vita schiva e spartana, andare in giro per boschi. Io non sono ancora arrivato a questo livello, vivo ancora gran parte del mio tempo a Milano, anche se in sempre più stretto isolamento. Da quando ho iniziato a scrivere libri con una certa assiduità e testi che prevedono ampie rifiniture, si fanno però sempre più frequenti le fughe e i soggiorni via via più prolungati nella casa a 1700 metri di altezza, tra le Alpi del Piemonte occidentale. Là dove si svolgono le vicende del romanzo e del racconto che tu hai citato nella domanda. I luoghi, le vicende, i personaggi sono tutti veri, ed è vera anche la diversità, raccontata dunque perché ne ho visto l’evoluzione, le conseguenze. Il rapporto è nato così, dalla conoscenza diretta, e questo è il modo migliore.


non esistono posti lontani invece è un lungo cammino fatto in compagnia ma fra persone diverse. Insegna che anche persone distanti si possono unire in un lungo viaggio, come in una endurance di più giorno dove incontri e perdi persone lungo la traccia; concordi?

 

Questo romanzo è un viaggio tra mille difficoltà in una Italia sconosciuta d’altri tempi - siamo nel 1944 - e, al tempo stesso, è la storia di una amicizia che nasce tra due persone che sono all’opposto in tutto: censo, età, cultura, intenti, educazione. In questo viaggio ognuno impara dall’altro e migliora la propria condizione, la propria visione del futuro.

Direi che il tuo paragone con un endurance trail calza a pennello. Anche nella corsa in montagna, infatti, conosciamo persone nuove, saldiamo amicizie inaspettate, condividiamo le difficoltà e la gioia di raggiungere un obiettivo; inoltre il trail ci permette di attraversare posti bellissimi che altrimenti non avremmo mai potuto scoprire.



qui con Oscar Tajola, responsabile della sicurezza e del soccorso al Tor des Géants

Hai fatto parte dell'ufficio stampa del Tor des Géants, la più grande gara di endurance. Ma se avessi avuto la possibilità di parlare a nome di un grosso comitato, in questo anno difficile, cosa avresti voluto dire al panorama trail?

 

Cose semplici, se vuoi un po’ scontate, dettate dal buon senso e dalla realtà dei fatti. Correre in montagna è, deve essere, divertimento, libertà, sicurezza, benessere. Tutte cose che gli organizzatori di gare, i quali gestiscono una macchina complessa, ancora non possono garantire. Gran parte delle persone lo hanno per fortuna ben capito; altri, pochi in verità, che di solito mirano unicamente alla prestazione sportiva, alla performance atletica di cui vantarsi poi dopo non si sa bene con chi, hanno avuto da ridire. Perché in fondo, sostengono, correre in montagna, correre in genere, non crea assembramento. Già, lungo i sentieri può essere così, ma nei punti di sosta, nelle cucine, nelle aree massaggi, nelle infermerie, sui bus, nei rifugi, negli alberghi? Chi sembrava voler correre a tutti i costi, ha mai pensato ai volontari, ai medici, ai soccorritori, agli autisti, alle cento, mille persone che devono necessariamente stare a stretto contatto di gomito? Corriamo in solitario – possiamo continuare a farlo anche senza le gare – ma liberiamo i pensieri, godiamoci la natura, la solitudine, la fatica, e lasciamo a casa l’egoismo.

 

Negli ultimi giorni sono aumentate le restrizioni per combattere questo nuovo virus che è entrato prepotentemente nelle nostre vite, a noi piace per quanto possibile guardare al futuro in modo costruttivo e non distruttivo, cercando di agire per il meglio nel rispetto del prossimo e di noi stessi . C’è una frase che ci è piaciuta molto ed è tratta dalla Manutenzione dei Sensi :  “Meglio cercare di far accadere le cose, piuttosto che stare fermi, passivi, ad aspettare che accadano”…  è un messaggio forte, che non dobbiamo mai perdere di vista, perché anche nelle difficoltà occorre reagire. Come stai vivendo la tua quotidianità oggi?

 

Contro le difficoltà si reagisce con l’azione, non con la contemplazione, con l’attesa, con la speranza, sempre più vana, che qualcuno intervenga al nostro posto. Non mi chiudo, anche metaforicamente, in casa, aspettando che la tempesta sia passata. Ti sintetizzo la favola del colibrì: scoppiò un tremendo incendio nella foresta e tutti gli animali si diedero alla fuga. Un colibrì iniziò però a tuffarsi nello stagno, per prendere con il becco una goccia d’acqua per poi lasciarla cadere sulle fiamme. Ma cosa fai? gli chiese il leone che passò di lì correndo, tu che puoi, vola via. E il colibrì rispose: io faccio solo la mia parte. Un protagonista di un mio romanzo dice: per dare uno scopo alla nostra vita, dobbiamo prenderci cura di qualcuno o di qualcosa. Io cerco di farlo, naturalmente con i mezzi che  mi sono consentiti e che al momento, in cui è difficile muoversi, viaggiare, avere rapporti stretti con gli altri, sono quelli della scrittura. Cerco di scrivere buoni testi che non pretendono certo di lasciare segni indelebili nella narrativa, ma che possono far passare più serenamente il tempo a chi li leggerà in questi periodi difficili. Dall’inizio dell’anno sto lavorando contemporaneamente su quattro progetti diversi e so che altri sono in arrivo. Quindi la mia quotidianità è fatta di ore e ore passate al computer, tra libri, fogli, appunti, telefonate e mucchi di cancelleria. In casa ho una silenziosa stanza tutta per me, con un tavolo enorme, una libreria nuova e una bella luce che entra dalla finestra. La quarantena passata m’’ha fatto un baffo, se ce ne sarà un’altra - speriamo comunque di no -  so già come affrontarla. Anche in questo caso mi sento un privilegiato, a volte penso a chi  vive in spazi angusti, magari lontano dagli affetti e non può fare il suo lavoro. Ma non bisogna mai smettere di fare progetti, di pensare che anche questa passerà, di tenere duro e di fare, se si può, qualcosa per gli altri, perché c’è sempre qualcuno che sta peggio e vive in una solitudine imposta.


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